
SMART WORKING: PER LA CASSAZIONE IL DISABILE NE HA DIRITTO
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- On Febbraio 10, 2025
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La Suprema Corte, con la sentenza n. 605 del 10 gennaio 2025, afferma che il datore di lavoro è obbligato ad accogliere la richiesta di lavoro agile del portatore di handicap, anche se l’accordo collettivo aziendale esclude gli altri lavoratori che svolgono le stesse mansioni.
Importante sentenza della Cassazione nei confronti dei lavoratori con disabilità che prevede il diritto del lavoratore disabile allo Smart working.
I FATTI
Un lavoratore disabile, dipendente di una società fin dal 1997 e inquadrato al 5° livello del CCNL di comparto, settore Caring – Customer Care, si è rivolto al Tribunale chiedendo di poter svolgere, da remoto o in regime di lavoro agile, le stesse mansioni svolte presso la sede di assegnazione.
Il Tribunale, tuttavia, ha rigettato la richiesta del lavoratore.
LA SENTENZA DELLA CORTE D’APPELLO
La Corte d’Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, ha ordinato alla società di assegnare l’appellante alla sede dove era residente per svolgere, da remoto o in regime di lavoro agile il suo lavoro.
In particolare, la Corte, considerati i gravi deficit visivi del lavoratore, invalido civile, ha riscontrato violazione dell’art. 3, comma 3-bis, del Decreto Legislativo n. 216/2003 (Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), in relazione alla mancata adozione da parte della società di ragionevoli accomodamenti, prescritti dalla norma in funzione antidiscriminatoria con riguardo ai lavoratori con disabilità.
Valutate le prove, la Corte di Napoli ha osservato quanto segue:
- nella sede di lavoro erano effettivamente adibiti soltanto tecnici;
- le condizioni di salute del lavoratore rendevano l’accesso alla sede di lavoro molto difficoltosa;
- lo svolgimento di lavoro agile era regolato da accordo del 27.7.2017, da cui, però, erano esclusi i caring agents, quali il ricorrente;
- l’obbligo di adottare ragionevoli accomodamenti per evitare la disparità di trattamento del lavoratore con disabilità, rende necessario verificare le possibilità concrete di espletare la prestazione lavorativa con modalità di lavoro agile, con oneri finanziari a carico della società, quali la fornitura di idonea strumentazione e la formazione, non eccessivi e, dunque, non irragionevoli.
Inoltre, durante la pandemia, la società aveva fatto ricorso allo smart working per l’espletamento della prestazione lavorativa, pertanto tale modalità poteva essere adottata come accomodamento ragionevole in accoglimento della domanda del lavoratore.
IL RICORSO IN CASSAZIONE
Per la cassazione della predetta sentenza la società ha proposto ricorso.
- Con il primo motivo, la società ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 3-bis, del d. Lgs. n. 216/2003 e dell’art. 41 Cost.; sostenendo l’insussistenza e la mancata dimostrazione di discriminazione in ragione della mancata adozione di ragionevoli accomodamenti da parte della società in relazione alla disabilità del dipendente.
- Con il secondo motivo, la società ha dedotto la violazione e la falsa applicazione degli artt. 18 e 19 della legge n. 81/2017 (Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato); ritenendo che, erroneamente, la Corte d’Appello aveva assegnato il lavoratore alla sede più vicina alla sua abitazione, senza consentire alla Società di concordare con il lavoratore l’accesso al lavoro agile e le relative modalità, mentre le norme in materia richiedono la sottoscrizione di un accordo individuale e prevedono la facoltà di recesso di entrambe le parti in caso di accordi a tempo indeterminato.
LE RAGIONI DELLA CASSAZIONE
Per la Suprema Corte il primo motivo non è fondato.
La Cassazione ha infatti precisato che la tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda sulla direttiva 2000/78/CE, attuata nell’ordinamento italiano, e sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che include il motivo della disabilità nell’ambito dell’art. 21 (che sancisce il divieto generale di discriminazioni) e contiene anche una disposizione specifica (l’art. 26) che riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità (azioni positive).
La tutela è inoltre fondata sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con legge n. 18/2009 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006.
La Convenzione (CDPD) è stata approvata dall’UE, nell’ambito delle proprie competenze, con Decisione del Consiglio del 26 novembre 2009 relativa alla conclusione, da parte della Comunità europea, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (2010/48/CE), con la conseguenza che per la Corte di giustizia UE le stesse direttive normative antidiscriminatorie vanno interpretate alla luce della Convenzione.
La Corte, dunque, ritiene necessaria la considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittime finalità di politica occupazionale, che postula l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE (Cass. n. 9095/2023, n.14316/2024, п. 24052/2024). Posto che, in tema di comportamenti datoriali discriminatori, nel caso di discriminazione diretta la disparità di trattamento è determinata dalla condotta e nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l’effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé legittima (Cass. n. 20204/2019), il termine di paragone è rappresentato dalle modalità della prestazione per i lavoratori non portatori di gravi disabilità; la questione degli accomodamenti ragionevoli possibili e praticabili in concreto si sposta, pertanto, sul piano della prova; e su tale piano la sentenza impugnata è conforme al regime probatorio specifico e speciale vigente nel diritto antidiscriminatorio.
Nei giudizi antidiscriminatori incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa (cfr. Cass. n. 23338/2018, in tema di recesso).
Nel caso di specie, La Corte distrettuale ha proceduto, secondo tale regime probatorio e con accertamento di fatto riservato al giudice del merito, a verificare l’effettiva praticabilità di ragionevoli accomodamenti, nel rispetto dei principi stabiliti dalla direttiva 2000/78/CE, per rendere concretamente compatibile l’ambiente lavorativo con le limitazioni funzionali del lavoratore disabile; specularmente, non ha giudicato che il datore di lavoro si trovasse in una situazione di impossibilità di adottare i suddetti accomodamenti organizzativi ragionevoli, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto (v. Cass. n. 5048/2024); il ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa, è stato individuato nella soluzione dello smart working dall’abitazione, già utilizzata nel periodo pandemico (v. Cass n. 6497/2021 cit., n. 9870/2022).
Parimenti infondato è il secondo motivo ricorso. A parere della Corte, L’onere di interlocuzione, la cui base giuridica risiede nella Convenzione di New York e nella giurisprudenza della CGUE, è ora direttamente stabilito nell’art. 17 d. Lgs. 3.5.2024 n. 62 (Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato); è proprio la procedimentalizzazione della facoltà della persona con disabilità di richiedere l’adozione di un accomodamento ragionevole, con conseguente diritto di partecipare alla sua individuazione, a riflettere il carattere vincolante dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli, il cui rifiuto costituisce la discriminazione vietata.
Il ricorso è stato dunque rigettato.
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