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Cause di lavoro: diminuzione dei procedimenti giudiziali tra il 50 e il 90 per cento

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  • On Luglio 6, 2022
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Una tendenza rilevata già a metà del decennio passato grazie al monitoraggio sistematico avviato con la legge Fornero del giugno 2012 e che, leggendo i dati forniti ora dal ministero della Giustizia, conferma una netta diminuzione anche nell’ultimo quinquennio.

Stiamo parlando della riduzione del contenzioso giudiziale in materia di lavoro, ipertrofico fino a qualche tempo fa nel nostro Paese a causa di un’anomalia tutta italiana, basata sull’idea che la protezione delle persone che lavorano non fosse veramente tale se non passando per le aule dei tribunali.

Non sono purtroppo disponibili dati omologhi a quelli forniti dal ministero (cioè confrontabili, in quanto rilevati dalle stesse fonti e con lo stesso metodo) per gli anni precedenti. Ma si può presumere che la tendenza alla riduzione del flusso delle controversie abbia avuto inizio prima del 2012, grazie a alcune norme tendenti a una deflazione del contenzioso.

Le norme che hanno contribuito alla riduzione

Si tratta per esempio della legge n. 183 del 2010, il cosiddetto “collegato-lavoro”, che ha molto probabilmente dato un contributo rilevante alla riduzione del contenzioso in materia di contratto a tempo determinato e di licenziamento, riducendo i termini per l’impugnazione, determinando un risarcimento-standard per il caso di nullità del termine apposto al contratto e, in qualche misura, anche ridefinendo lo spazio della possibile impugnazione delle clausole contrattuali. È plausibile inoltre che un contributo determinante a consolidare la tendenza alla riduzione delle cause su queste materie sia stato dato sia stato dato dalla legge Fornero del giugno 2012 e dai decreti attuativi del Jobs act del 2015.

A suo tempo una parte dei giuslavoristi ha protestato contro questo intendimento perseguito dal legislatore nel corso della XVI e della XVII legislatura, auspicando un ritorno a un più ampio ruolo del magistrato nelle controversie di lavoro: questo proprio perché, come detto in premessa, si identifica l’aumento del grado di protezione delle persone con l’aumento del grado di “giuridificazione” del rapporto di lavoro e con il conseguente aumento dello spazio di sindacabilità giudiziale delle sue modalità di svolgimento e cessazione. Ora, sicuramente dietro l’opposizione alle scelte compiute dal legislatore c’è una sincera preoccupazione per la protezione dei lavoratori ma molto probabilmente c’è anche una più o meno consapevole preoccupazione per la perdita del ruolo di avvocati e giudici, nei decenni passati notevolmente sovradimensionato.

Il progetto di Blanchard e Tirole

Il progetto cui, in parte, si sono ispirate le riforme dei licenziamenti sia in Francia sia in Italia è di vent’anni fa quando Olivier Blanchard e Jean Tirole proposero al governo francese una riforma della materia del licenziamento per motivi economici che intendeva ridurre drasticamente il contenzioso giudiziale. Si affidava quindi interamente al legislatore il determinare l’entità della “copertura assicurativa” che il contratto di lavoro deve garantire al lavoratore, ossia la soglia fino alla quale la perdita conseguente a una sopravvenienza negativa deve essere sopportata dall’impresa. 

Il progetto conserva oggi tutta la sua attualità e prevede che, salvo il caso di mancanza grave del lavoratore, in qualsiasi altro caso di licenziamento l’impresa debba pagargli un determinato indennizzo: se è disposta a pagare il severance cost, la cosiddetta buonuscita, evidentemente significa che la perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto è di entità superiore. 

I due economisti spiegano che il grado di sicurezza offerto al lavoratore dipende dall’entità dell’indennizzo, che può essere liberamente determinata dal legislatore; ma è comunque più vantaggioso per la persona essere protetta da un indennizzo certo che da uno subordinato all’esito di un giudizio.

In Italia la riforma dei licenziamenti compiuta con le leggi del 2012 e del 2015 non si è spinta fino al punto teorizzato da Blanchard e Tirole; ma ha compiuto un buon passo in quella direzione stabilendo i limiti minimo e massimo dell’indennizzo gravante sull’impresa e così, indirettamente, l’entità del “contenuto assicurativo” implicito nel contratto di lavoro. 

Cosa avveniva prima delle riforme

Prima di allora la posta in gioco in una causa in materia di licenziamento era pressoché illimitata: dalla decisione del giudice dipendeva se il lavoratore restava con un pugno di mosche in mano o se otteneva la reintegrazione nel posto di lavoro, più un risarcimento che poteva arrivare a diverse annualità di retribuzione (secondo la durata complessiva del procedimento giudiziale). 

L’incertezza dell’esito era elevatissima, dipendendo in larga parte anche dalla collocazione del magistrato nell’ampia gamma che va da quelli più “pro-business” a quelli più “pro-labour”. 

Il volume del contenzioso su una determinata materia dipende essenzialmente proprio dal grado di prevedibilità dell’esito del giudizio, come insegnano gli studi sulla propensione delle parti interessate a rivolgersi al giudice: maggiore è l’incertezza, più alto è il numero dei ricorsi giudiziali. Fino al 2012, dunque, la posta in gioco potenzialmente enorme, combinata con un grado di incertezza molto elevato della decisione finale, determinava le dimensioni abnormi del contenzioso giudiziale italiano rispetto agli altri paesi della Ue.

La riforma strutturale “implicita” dell’Italia

Le riforme dell’ultimo decennio precedente alla legislatura attuale, sia in materia di contratto a termine (con l’abolizione della “causale” e la predeterminazione dei limiti temporali e di organico) sia in materia di licenziamento (con la reintegrazione prevista per i soli casi di motivo illecito e la predeterminazione dell’entità dell’indennizzo dovuto nel caso in cui il giudice ritenga il licenziamento ingiustificato), sono state mirate a predeterminare il grado di protezione del lavoratore, riducendo notevolmente l’incidenza dell’alea giudiziale. 

Quindi la riduzione del contenzioso risultante dai dati riportati sopra è del tutto plausibile sia imputabile a queste riforme. Se così fosse, questa sì sarebbe una riforma strutturale che l’Italia potrebbe presentare a Bruxelles come un rilevantissimo “compito a casa” di armonizzazione del sistema rispetto agli altri paesi membri eseguito con successo.

A seguito delle riforme non solo il rischio per i lavoratori di essere licenziati non è aumentato; quando il licenziamento per motivi economici viene intimato, l’indennizzo si colloca oggi pur sempre a livelli nettamente superiori rispetto a quanto accade negli altri paesi della Ue. Ma la nuova disciplina legislativa della materia fa sì che l’accordo fra le parti sia ora molto più facile e immediato. 

È chiaro che questo tolga molto lavoro giudiziale agli avvocati, i soli veri danneggiati dalle riforme in questione. Molti, infatti, in Parlamento e nelle istituzioni, durante quest’ultima legislatura, si sono adoperati perché il loro lavoro torni ad aumentare.

Credit by: lavoce.info

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