Tornando sul recesso anticipato dal contratto a termine: cosa rischiano datore e lavoratore?
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- On Novembre 24, 2021
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Alcuni istituti che presidiano la regolazione dei rapporti contrattuali di durata, quale è il contratto di lavoro a tempo indeterminato, non sono compatibili con quei rapporti contrattuali che sono sottoposti ad un termine per espressa volontà delle parti, come nel caso dei contratti a tempo determinato. La giurisprudenza ha, infatti, chiarito che a questi non può trovare applicazione, ad esempio, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo o il recesso anticipato per ragioni diverse dalla giusta causa; sarebbe invece compatibile la risoluzione consensuale anticipata.
Le ragioni dell’incompatibilità tracciate dai giudici poggiano su delle argomentazioni logicosistematiche ampiamente condivisibili. Per un verso, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo risulta inconciliabile con i contratti a termine perché esso risponde alla necessità per il datore di lavoro di “reagire” alle sopravvenienze “che rendano oggettivamente non più conveniente mantenere in vita il rapporto”. Necessità che si manifesta solo nell’ambito del contratto di lavoro a tempo indeterminato – quale “forma comune di rapporto di lavoro” (cfr. art. 1 del d.lgs. n. 81 del 2015) – dove non è preventivamente fissata una durata e il rapporto è esposto ontologicamente ad una serie indefinita di sopravvenienze che si possono manifestare nel tempo e possono comportare anche il crollo dello schema contrattuale.
Tuttavia, questa necessità svanisce “quando la durata (del contratto) sia limitata nel tempo, soprattutto se è il datore di lavoro che, in considerazione di particolari sue esigenze, si avvalga dello strumento del contratto a termine” (cfr. Cass. 10 febbraio 2009, n. 3276; Cass. 25 febbraio 2013, n. 4648).
Per quanto concerne il recesso anticipato, questo è ammesso solo in presenza di una giusta causa, ossia di un fatto di gravità tale da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro (cfr. art. 2119 cod. civ.). Pertanto, il datore di lavoro potrà recedere dal contratto a tempo determinato solo allorquando il lavoratore si renda inadempiente adottando una condotta da compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Allo stesso tempo, il lavoratore potrà recedere dal contratto a termine solo in presenza di una situazione che renda giustificabile le dimissioni (ricorrenti sono le dimissioni c.d. “per giusta causa” indotte da situazioni di mobbing o per mancato pagamento della retribuzione). Diversamente, in assenza di una giusta causa, la giurisprudenza ritiene che il recesso anticipato (ante tempus) non possa essere esercitato se non con la consapevolezza che da esso ne potrebbe derivare un danno – che va risarcito – in quanto la parte che recede dal contratto a tempo determinato senza una ragione giustificatrice, lede l’interesse dell’altra parte del rapporto, che faceva affidamento su una certa durata della relazione contrattuale (cfr. Trib. Roma, 28 settembre 2020, n. 4817, laddove si ribadisce che il recesso anticipato è consentito solo nelle ipotesi di cui all’art. 2119 cod. civ., dovendo escludersi, oltre alle ipotesi prive di giusta causa, anche “la riorganizzazione dell’assetto produttivo dell’impresa” che è circostanza non idonea “a risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato”).
A questo punto, un quesito sorge spontaneo: se a recedere ante tempus senza una giusta causa è il datore di lavoro, come si quantifica il danno che questo dovrà risarcire al lavoratore? E se, invece, è il lavoratore a recedere anticipatamente senza una motivazione valida, questi può essere condannato a risarcire il datore di lavoro? La giurisprudenza ha cercato di fornire delle risposte al riguardo.
Per quanto concerne la posizione dell’impresa, un orientamento costante ritiene che “se a recedere è il datore di lavoro, il lavoratore ha diritto a ricevere le retribuzioni che avrebbe percepito ove il contratto si fosse concluso alla scadenza prefissata” (v. sempre Trib. Roma, 28 settembre 2020, n. 4817, che sul punto richiama diversi precedenti giurisprudenziali). In questo caso, i giudici, ricorrendo agli artt. 1218 e 1223 cod. civ., vedono nelle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito un parametro utile a risarcire tanto il danno emergente (ciò che il lavoratore perde nel momento in cui il datore recede anticipatamente senza una giusta causa) che il lucro cessante (il mancato guadagno provocato da un recesso illegittimo; in tema, da ultimo, cfr. Trib. Chieti 14 luglio 2020, n. 132).
Non manca, invero, qualche orientamento di segno contrario, che ricorre invece alla liquidazione del danno in via equitativa ex art. 1226 cod. civ.; tuttavia, trattasi di una posizione minoritaria.
Quando invece a recedere anticipatamente senza una giustificazione è il lavoratore, l’atteggiamento della giurisprudenza è più rigido difronte alla richiesta – abbastanza diffusa – del datore di lavoro di farsi corrispondere una somma a titolo di risarcimento del danno pari al valore delle retribuzioni che il dipendente avrebbe percepito se non si fosse dimesso (si pensi al caso, ad esempio, del lavoratore assunto a termine da un’azienda che, in vista di una migliore offerta di lavoro, si dimette per andare a lavorare altrove). In questi casi, perché la richiesta di risarcimento venga accolta – anche se non nella misura appena indicata – la giurisprudenza chiede al datore di lavoro di dimostrare che l’abbandono improvviso della relazione contrattuale ha ingenerato un danno all’organizzazione produttiva. In caso contrario, il lavoratore nulla dovrebbe al datore di lavoro, sebbene, come detto, il recesso ante tempus da un contratto a tempo determinato non sia consentito se non a fronte di una giusta causa.
Ammesso che, però, il datore di lavoro riesca a provare la sussistenza di un danno, residua l’ulteriore problema di come quantificare quest’ultimo. Se, come detto, in caso di recesso ante tempus da parte del datore di lavoro sono le retribuzioni che avrebbe percepito il lavoratore fino alla scadenza del contratto a fungere da parametro di riferimento, nel caso in cui a recedere sia il lavoratore, la giurisprudenza, anziché ricorrere al medesimo criterio, sembrerebbe avvalersi di una valutazione equitativa dell’importo del risarcimento del danno, condannando di frequente il lavoratore a corrispondere una somma pari all’importo dell’indennità di preavviso, che ha la funzione economica di attenuare per la parte che subisce il recesso le conseguenze pregiudizievoli della cessazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato (sul punto, si rinvia a Trib. Perugia 27 gennaio 2016, n. 28). In linea di massima, quindi, sebbene nel rapporto a tempo determinato l’indennità di preavviso non sia dovuta, se il lavoratore recede senza giustificazione, il datore può chiedere i danni, chiedendo la determinazione degli stessi in via equitativa, che il giudice, tendenzialmente, liquida per un importo pari all’indennità di preavviso (peraltro, in Trib. Perugia 27 gennaio 2016, n. 28 si sottolinea come questa scelta eviti anche “che il lavoratore [assunto a tempo determinato] possa subire un incomprensibile trattamento di mancato favore rispetto ai lavoratori con contratto a tempo indeterminato”).
Credit by:
Bollettino ADAPT
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