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P.A.: INCOMPATIBILITÀ CON L’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO. LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE 

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  • On Dicembre 7, 2023
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La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 31776 del 15 novembre scorso, capovolge l’esito dei primi due gradi di giudizio e ribadisce i casi in cui, a norma di contratto collettivo applicabile, l’incompatibilità sia sanzionabile.

Il dipendente di un Comune italiano, inquadrato come responsabile amministrativo, Cat. B3, era stato sanzionato dall’Ente per condotta contraria al codice di comportamento dei pubblici dipendenti in quanto, diventato avvocato nel 1998 ed iscrittosi all’albo, aveva mantenuto l’iscrizione anche dopo la scadenza del termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore della legge n. 339/2003, così violando il regime di incompatibilità assoluta tra pubblico impiego ed esercizio della professione forense. 

L’uomo ha dunque adito il Tribunale di Torino per ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare.

Le sentenze di 1° e 2° grado

Con sentenza n. 57/2018 la Corte di appello di Torino ha confermato la pronuncia emessa dal giudice di primo grado che accoglieva il ricorso del dipendente nei confronti del Comune, volto a ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni e, dall’altro, e respingeva la domanda riconvenzionale dell’amministrazione diretta alla condanna del lavoratore al versamento dei proventi dello svolgimento dell’attività professionale di avvocato a decorrere dall’iscrizione all’albo (9 aprile 1998) ovvero alla scadenza dei trentasei mesi previsti per il diritto di opzione dalla legge n. 339/2003 (https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2003;339#:~:text=Ai dipendenti pubblici iscritti ad,sia parte una pubblica amministrazione.) che regolamenta le norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato.

Nel corso del giudizio di primo grado, il Tribunale ha precisato che l’art. 3, comma 5 lett. k, C.C.N.L. punisce la violazione di obblighi di comportamento del dipendente dai quali scaturisce un “disservizio ovvero danno o pericolo all’ente”, elemento non configurabile in re ipsa per la sola violazione delle regole comportamentali, né allegato e/o dimostrato dal Comune. 

Il ricorso in Cassazione

Contro la decisione di secondo grado il Comune ha proposto ricorso in Cassazione, cui è seguito il controricorso proposto dal lavoratore. 

Con ordinanza n. 31776 del 15 novembre 2023, la Suprema Corte ha accolto il ricorso principale e dichiarato inammissibile l’incidentale. 

L’ordinanza della Suprema Corte

Come è agevole constatare, – si legge nell’ordinanza – le prime quattro censure del Comune di X ruotano tutte sulla violazione del regime dell’incompatibilità assoluta e convergono nell’affermazione dell’esistenza di un conflitto di interessi, di natura immanente, atto a integrare quel “disservizio, danno o pericolo” previsto dall’art. 3, comma 5 lett. k, c.c.n.l. 2008, (recte, art. 25 c.c.n.l. del 22.1.2004); l’art. 25 al comma 5 c.c.n.l. (con formulazione sovrapponibile alla clausola contenuta nell’art. 3 comma 5 lett. k) del c.c.n.l. del 11.4.2008) punisce con la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di 10 giorni, tra le altre violazioni, quella degli «[…] obblighi di comportamento non ricompresi specificatamente nelle lettere precedenti, da cui sia derivato disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi»; il tenore letterale della disposizione, – prosegue la Cassazione – nell’inciso «da cui sia derivato disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi», non deve trarre in inganno e deve essere inteso alla stregua della peculiarità della fattispecie in esame, sicché non può dirsi corretta l’esegesi della Corte territoriale che ha ritenuto non ascrivibile l’addebito all’ipotesi enunciata nell’atto di contestazione disciplinare in difetto di puntuale allegazione e prova della “derivazione” causale di uno specifico “disservizio, danno o pericolo” dalla condotta violativa degli obblighi posta in essere dal dipendente; questo perché i casi di compatibilità costituiscono eccezioni ad una regola, quella dell’incompatibilità, che, come si è detto, è stata voluta dal legislatore al fine di evitare i rischi che derivano, anche per i possibili conflitti di interessi, dalla indebita commistione tra attività forense e pubblico impiego (Corte cost. n. 390/2006).

In sostanza non serviva allegare e provare da parte dell’amministrazione il “concreto pericolo” connesso alla violazione dell’obbligo di comportamento perché tale rischio era, in fondo, già insito nell’opzione legislativa, «non potendo ritenersi priva di qualsiasi razionalità una valutazione – operata dal legislatore – di maggiore pericolosità e frequenza di tali inconvenienti quando la «commistione» riguardi la professione forense» (cosi Corte cost. n. 390/2006 cit.)

LEGGI QUI L’ORDINANZA COMPLETA

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