Patto di prova: derogabilità del limite massimo di durata e possibilità di ripetizione

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  • On Luglio 6, 2020
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di Salvatore Guglielmino, Avvocato

Con due recenti pronunce la Corte di Cassazione si è nuovamente occupata del patto di prova e della possibilità per le parti contrattuali – datore di lavoro e lavoratore – di derogare al limite di durata massima così come stabilito dalla contrattazione collettiva nonché di ripetere tale periodo al mutare di determinate condizioni.

Il patto di prova, disciplinato dall’art. 2096 del cod. civ., è una clausola che può essere apposta al contratto di lavoro per subordinare l’assunzione definitiva del prestatore all’esito positivo di un periodo (detto, appunto, di prova), in cui le parti verificheranno la reciproca convenienza dell’instaurando rapporto giuridico; ed infatti, il datore di lavoro avrà la possibilità di valutare le capacità e le competenze del lavoratore, mentre quest’ultimo potrà considerare l’entità della prestazione richiesta, le condizioni di svolgimento nonché l’interesse verso il ruolo assegnato.

Durante il suddetto periodo ciascun soggetto potrà svincolarsi dal rapporto negoziale mediante un recesso unilaterale libero e privo di formalità (non è previsto preavviso o indennità), salva l’ipotesi in cui sia stata pattuita una durata minima del periodo di prova poiché in tale ultimo caso, ai sensi dal comma III dell’art. 2096 del c.c., le parti non possono recedere prima del decorso del termine convenuto.

La legge lascia alla contrattazione collettiva il compito di determinare il limite massimo di durata del periodo di prova in ragione del fatto che le sigle sindacali, nella redazione dei vari C.C.N.L. di categoria, sono le figure più idonee a quantificarlo ed a diversificarlo con riferimento ad ogni attività lavorativa ed alle peculiarità a questa collegate.

Con Ordinanza n. 9789, emessa in data 25 maggio 2020 dalla Sezione lavoro della Corte di Cassazione, i giudici di legittimità, confermando un orientamento ormai immutato sin dall’ordinanza n. 8295 del 2000, hanno statuito che le parti contrattuali possono pattuire, con forma scritta ab substantiam, un periodo di prova di durata maggiore rispetto a quello previsto dal contratto collettivo di categoria in ragione delle esigenze connesse alla prestazione lavorativa ovvero agli interessi dei contraenti.

Tuttavia, i giudici di legittimità affermano che un patto di prova che duri più a lungo, rispetto all’arco temporale previsto dalla contrattazione collettiva, potrà ritenersi legittimo solo nel caso in cui detto prolungamento sia giustificato dalla particolare complessità o gravosità delle mansioni che si vogliono affidare al lavoratore.

Sul punto la Corte afferma che l’onere probatorio in ordine alla necessità di un periodo di prova più lungo ricade interamente sul datore di lavoro, atteso che quest’ultimo usufruirà di un tempo maggiore sia per valutare l’opera prestata dal dipendente sia per recedere, liberamente, dal contratto.

Inoltre, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 22809 del 12 settembre 2019, si è ulteriormente occupata dell’istituto in commento, concentrando la propria attenzione sulla possibilità, per un’Azienda, di ripetere il patto di prova con il medesimo lavoratore, a parità di mansioni, a condizione che ciò sia funzionale all’imprenditore per verificare il comportamento del dipendente in relazione agli elementi nuovi dell’attività da svolgere.

In tale sentenza i giudici erano chiamati a valutare la legittimità di un recesso contrattuale operato da una ditta di trasporti nei confronti di un autista di autobus che, nel corso del periodo di prova pattuito nel contratto di assunzione a tempo indeterminato, durante lo svolgimento delle proprie mansioni, con i passeggeri a bordo del mezzo, causava un incidente in prossimità di un passaggio a livello.

Per l’Azienda, l’imperizia mostrata dal lavoratore giustificava il recesso per mancato superamento del periodo di prova. Ciò non era condiviso dal lavoratore che ricorreva dinnanzi al Tribunale chiedendo che il suddetto recesso venisse qualificato come un licenziamento illegittimo atteso che questi svolgeva, da sette anni e per la stessa ditta, medesime mansioni con identico inquadramento, il tutto grazie a plurimi contratti a termine.

Tuttavia, la Corte di Cassazione, confermando quanto già dichiarato dalla Corte d’Appello, ha ritenuto legittimo il recesso asserendo che la verifica dell’interesse di entrambe le parti a sperimentare la convenienza del rapporto non deve escludersi nelle ipotesi in cui queste abbiano già intrattenuto, con esito positivo e per un congruo lasso di tempo, un rapporto di lavoro avente ad oggetto le medesime mansioni; ed infatti, l’assunzione a tempo indeterminato è causa di un rapporto di lavoro differente rispetto ai precedenti contratti a termine sottoscritti tra i medesimi soggetti, caratterizzato da circostanze e condizioni ulteriori, e ciò legittima la previsione di un nuovo patto di prova.

Per tale ragione, la Corte di Cassazione, rigettando il ricorso e considerando legittimo il recesso operato dall’Azienda, ha dichiarato possibile la ripetizione del patto di prova tra le parti al mutare delle circostanze o delle condizioni che caratterizzino, ex novo, il rapporto di lavoro.

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