In queste settimane, il dibattito pubblico è caratterizzato dalla discussione sull’annunciata riforma della giustizia strutturata dal Governo presieduto da Mario Draghi. Tema non nuovo e occasione di promesse e annunci ciclicamente decantati e, ahinoi, mai compiutamente soddisfatti: giova ricordare che il Consiglio Europeo ha invitato l’Italia a “ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio” (Raccomandazioni 2017, 2018 e 2019) e che la Commissione Europea ha sollecitato il nostro Paese ad approvare riforme capaci di attuare una “maggiore efficienza della giustizia”, in particolare quella civile i cui processi, nonostante le riforme implementate, hanno ancora “una durata tra le più elevate dell’UE” (Country Specific Recommendations, 2020).
Non sorprende, dunque, che, perlomeno con riferimento al settore civile, la riforma rinnovi anzitutto l’intenzione di ridurre il carico degli uffici giudiziari così da creare condizioni di maggiore efficienza del sistema.
In tale ottica, si propone di seguito una analisi, allo stato degli atti parlamentari e della programmazione politica, di quelle modifiche che dovrebbero provocare un sensibile rafforzamento e, quindi, un maggior utilizzo, dei cosiddetti strumenti di Alternative Dispute Resolution (ADR), con l’auspicabile conseguenza, per quanto di interesse in questa trattazione, di offrire strumenti e opportunità capaci di mitigare il noto refrain legato alla poca attrattività del sistema italiano per gli investitori stranieri.
Novità per l’arbitrato
In particolare, si prenderanno in considerazione le innovazioni all’istituto dell’arbitrato, tipico strumento in uso nell’ambito del commercio internazionale.
Per quanto pleonastico, è opportuno ribadire che una più intensa delocalizzazione della giurisdizione, conseguente all’affinamento della giurisdizione arbitrale, è perfettamente compatibile con l’architettura costituzionale: se è vero che lo Stato ha il dovere di fornire giustizia (art. 24 Cost.), per converso, non v’è alcun obbligo per il cittadino di aderirvi e, anzi, dal principio dell’autonomia delle parti (in relazione ai diritti disponibili) discende la legittimazione dell’arbitrato (e degli altri procedimenti ADR).
In effetti, la genuinità giurisdizionale del lodo arbitrale è ormai accolta nel nostro ordinamento, inter alia, tramite gli artt. 824 bis e 825 c.p.c., e la “natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario da attribuirsi all’arbitrato rituale” è stata riconosciuta da una nota pronuncia della Suprema Corte nella sua più elevata composizione (Cass., SS.UU., n. 24153 del 25 ottobre 2013).
Come era verosimile ipotizzare, il Governo ha utilizzato come un volano il disegno di legge delega (DDL) n. 1662, in Senato dallo scorso gennaio, nel quale ha fatto confluire le misure in materia di giustizia contenute nel proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Il tema è trattato all’art. 11 del DDL là dove erano originariamente individuati due obiettivi: da un lato (lett. a), il rafforzamento delle garanzie di imparzialità e indipendenza dell’arbitro e, dall’altro (lett. b), l’approvazione di una nuova disciplina per l’esecutività del decreto del presidente della corte d’appello che dichiara l’efficacia del lodo straniero avente contenuto di condanna.
A seguito degli emendamenti figli del PNRR dell’attuale Governo, il testo propone ulteriori obiettivi: oltre alla riduzione a sei mesi del cosiddetto termine lungo per l’impugnazione per nullità del lodo di cui all’art. 828, secondo comma, c.p.c. (lett. e), all’inserimento nel codice di rito delle disposizioni ancora in vigore in materia di arbitrato societario del D.Lgs. n. 5/2003 (lett. f) e alla manifestata volontà di disciplinare la translatio iudicii in ambedue le direzioni tra giudizio arbitrale e ordinario (lett. g), si prenderanno qui in considerazione i caratteri di imparzialità e indipendenza degli arbitri (lett. a) e l’attribuzione all’arbitro rituale del potere di emettere provvedimenti cautelari (lett. c).
Più intensa imparzialità e indipendenza dell’arbitro
La disposizione (art. 11, lett. a, DDL emendato) si apre con la previsione della facoltà di ricusazione per “gravi ragioni di convenienza”, espressione teleologicamente preordinata a contemplare quelle circostanze personali degli arbitri che, secondo l’id quod plerumque accidit, potrebbero sfociare in ipotesi di conflitto di interesse dei medesimi.
Inoltre, viene previsto l’obbligo per gli arbitri di rilasciare una dichiarazione al momento dell’accettazione della nomina contenente tutte le circostanze di fatto rilevanti ai fini di garantirne l’imparzialità e l’indipendenza, con l’ulteriore previsione di far conseguire la decadenza dell’arbitro (attualmente prevista per l’omesso o ritardato compimento di atti della sua funzione, art. 813 bis c.p.c.) che si trovi nelle condizioni elencate dall’art. 815 c.p.c. e ne abbia omesso la spontanea disclosure.
In tale ultimo senso, nel silenzio del testo, se, per un verso, è lecito presupporre che potrebbero essere salvaguardati il procedimento di cui all’art. 815, terzo comma, c.p.c., e la previsione della pronuncia sulle spese (art. 815, quarto comma, primo periodo, c.p.c.), per altro verso, alla luce della maggior gravità delle conseguenze – vale a dire decadenza, in luogo dell’attuale ricusazione – ci si domanda come verranno regolate l’eventualità della manifesta inammissibilità o infondatezza dell’istanza di decadenza e la sospensione del procedimento in pendenza di essa (oggi art. 815, quarto e quinto comma, c.p.c.).
L’eventuale innovazione in commento si inserirebbe in un filone più ampio, riconducibile perlomeno alla novella di cui al D.Lgs. n. 40 del 2 febbraio 2006, che, inter alia, ha parzialmente ridisegnato il procedimento arbitrale (capo III, titolo VIII del Libro IV del c.p.c.) intraprendendo una via più internazionalmente orientata con l’adozione, per gli arbitrati con sede in Italia, di talune tecniche già in uso nella pratica transnazionale.
Tra queste, val la pena menzionare il maggior peso riconosciuto alla autonomia delle parti, principio cardine dell’evoluzione e della prassi di risoluzione delle controversie di natura mercantile e obiettivo cui tendono gli ordinamenti che offrono le discipline più cortesi agli operatori del commercio internazionale.
Si rammentano, infatti, le ampie facoltà offerte alle parti dall’art. 816 bis c.p.c., pur nel rispetto del principio del contraddittorio e delle “ragionevoli ed equivalenti” possibilità di difesa (così, di fatto, garantendo la no surprise rule largamente accolta nei consessi arbitrali internazionali).
Ancora, conviene evidenziare che la tutela del principio consensualistico è rafforzata anche tramite il riconoscimento del cosiddetto depeçage, ossia la parcellizzazione delle leggi applicabili voluta dalle parti nella formazione della propria volontà contrattuale.
Già nel 2014, infatti, con la sentenza n. 16963 del 24 luglio, la Suprema Corte ha riconosciuto la possibilità di applicare al medesimo contratto normative e prassi appartenenti a differenti ordinamenti giuridici secondo la comune intenzione dei contraenti per la realizzazione dell’operazione economica sottesa.
Tutela cautelare nell’arbitrato
In tema, conviene prendere le mosse dall’art. 17 della Legge modello Uncitral del 1985 che riconosceva agli arbitri il potere di rendere provvedimenti cautelari e, per l’effetto del recepimento di tale modello o dell’ispirazione ad esso, numerosi Stati (e istituzioni arbitrali) hanno da tempo accolto la competenza cautelare in capo agli arbitri seppur con colorazioni eterogenee.
Successivamente, in sede di revisione del modello Uncitral, la tutela cautelare è stata oggetto di ampio dibattito, in particolare con riferimento alla possibilità di introdurre il potere per gli arbitri di emanare provvedimenti di tale natura anche inaudita altera parte e non solo inter partes.
Omettendo, per ragioni di spazio, l’esame delle contrastanti posizioni tra delegazioni statali favorevoli e contrarie a tale proposta, si dà atto che la nuova Legge modello Uncitral, effettivamente, ha esteso il potere degli arbitri sino a comprendere l’emanazione di provvedimenti cautelari ex parte.
Occorre, tuttavia, dar conto che tale previsione è mitigata da un rilevante meccanismo di contrappesi a tutela di ogni possibile abuso e teso a connotarne il carattere decisamente eccezionale: tra essi, (i) la denominazione misure preliminari (preliminary orders) e non cautelari (interim orders) dei provvedimenti di tale natura emanati in assenza di contraddittorio, (ii) la tassatività dell’efficacia dei preliminary orders (art. 17/C, commi 1-4), e, specificamente, (iii) la previsione che, pur vincolante per le parti, un preliminary order non possa costituire un lodo e nemmeno titolo esecutivo in sede di giurisdizione statale (art. 17/C, comma 5).
Anche alla luce del fatto che nessun regolamento delle principali istituzioni arbitrali prevede espressamente il potere di emanare provvedimenti cautelari ex parte, e nemmeno gli ordinamenti a noi più vicini, conviene ora esaminare l’attuale disciplina italiana.
Attuale disciplina italiana
Il nostro ordinamento è ormai quasi isolato nel precludere qualsivoglia competenza cautelare in capo agli arbitri (art. 818 c.p.c.) e nel prevedere la competenza funzionale del giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito per il caso di domanda cautelare concernente una controversia oggetto di clausola compromissoria, compromessa in arbitri o se è già pendente il procedimento arbitrale (art. 669 quinquies c.p.c.).
Ebbene, non v’è dubbio che un tale sistema si presenta eccessivamente appesantito, contorto e poco gentile nei confronti degli operatori stranieri: difficoltà procedurali, lingua, frammentazione del procedimento e allungamento dei tempi sono alcune delle ragioni per le quali altri ordinamenti hanno già da tempo attribuito competenza cautelare agli arbitri.
Alla luce delle analisi svolte, l’intenzione del legislatore potrebbe contribuire a rafforzare sia lo snellimento della procedura arbitrale italiana, slegandola da austeri formalismi processuali naturalmente invisi agli operatori commerciali, sia la neutralità della sede decisionale, così avvicinando la disciplina dell’arbitrato italiano alle migliori pratiche internazionali.
Tuttavia, l’incipit della disposizione (art. 11, lett. c, DDL emendato) non brilla per particolare coraggio, giacché la competenza cautelare degli arbitri viene immediatamente circoscritta alle sole ipotesi di accordo in tal senso delle parti e sempreché questa comune volontà venga dichiarata nella convenzione di arbitrato o in successivo accordo scritto.
Il secondo periodo, con una formulazione particolarmente ostica, attribuisce agli arbitri anche la facoltà di pronunciarsi su istanze cautelari ante causam (arbitrale), salva, come è logico, la competenza del giudice ordinario ex art. 669 ter c.p.c. qualora non sia ancora intervenuta l’accettazione della nomina.
Quanto all’ampiezza del potere cautelare degli arbitri, nel silenzio del piano del Governo, è presumibile che, in linea con gli ordinamenti a noi più prossimi, esso venga contenuto nei limiti dei soli provvedimenti cautelari resi inter partes e questo almeno per due ordini di ragioni: per un verso, in ossequio al principio del contraddittorio e, per altro verso, per non vanificare l’indipendenza stessa degli arbitri (pilastro del procedimento e della fiducia devolutiva in sostituzione della giurisdizione ordinaria, nonché oggetto di rafforzamento con la stessa proposta di riforma) che potrebbe essere intaccata nel corso delle attività svolte in assenza di una parte.
Con riferimento all’impugnazione del provvedimento cautelare reso dagli arbitri – per le ragioni di cui all’art. 829, primo comma, c.p.c. e per contrarietà all’ordine pubblico – essa è rimessa alla competenza del giudice ordinario, tribunale in composizione collegiale o corte d’appello non è dato sapere.
Infine, sempre al “controllo” del giudice ordinario sono rimesse le modalità di attuazione delle misure cautelari emesse in sede arbitrale.
Conclusioni
Al netto della pur pregevole iniziativa volta a perseguire quell’equivalenza giurisdizionale dell’arbitrato annunciata nel PNRR, corre l’obbligo di sottolineare che il potenziamento della capacità attrattiva di investimenti, perlomeno da una prospettiva giuridica, potrà realizzarsi solo attraverso una riforma organica, coerente e di ampio respiro e, allo stato, è ancora decisamente difficile compiere una valutazione prognostica complessiva.
Si confida che l’innalzamento dell’attenzione verso l’indipendenza e l’imparzialità degli arbitri non si traduca nel mero travaso nel campo della decadenza di quelle condizioni che oggi possono dar luogo alla ricusazione. Se l’obiettivo della riforma vuole essere quello di rafforzare l’arbitrato con sede in Italia, avvicinandolo ai migliori standard internazionali, allora è opportuno tenere in considerazione il processo di intensificazione – probabilmente di ispirazione anglosassone – dei canoni di indipendenza, imparzialità e trasparenza che investono, in termini generali, gli organi di garanzia, e, in particolare sull’arbitrato, a titolo esemplificativo possono ricordarsi l’attuale art. 12 della Legge modello Unictral o i principi generali sui conflitti di interessi degli arbitri contenuti nelle Linee Guida dell’International Bar Association. In tal senso, particolare rilevo avrà la portata che dottrina e giurisprudenza daranno alla ricusazione per “gravi ragioni di convenienza”.
Venendo alla competenza cautelare degli arbitri (l’aspetto certamente più coraggioso tra le annunciate misure), è auspicabile che il legislatore si ispiri maggiormente allo spirito armonizzatore e alle best practice seguite e accolte nelle regolamentazioni di quegli Stati che maggiormente comprendono le esigenze di celerità tipiche del commercio internazionali.
Purtroppo, la restrizione alla sola ipotesi di congiunta volontà delle parti appare opprimere sul nascere lo slancio riformatore.
In tema di attuazione dei provvedimenti cautelari arbitrali, in luogo dell’asettica divisione per compartimenti stagni offerta dall’ultimo periodo dell’art. 11, lett. c), del DDL emendato, sarebbe auspicabile uno sforzo teso a creare le condizioni per una collaborazione tra il tribunale arbitrale e il giudice ordinario.
In tal senso, ad esempio, può menzionarsi l’art. 183 della legge federale svizzera di diritto internazionale privato (come modificato dalla LF del 19 giugno 2020, in vigore dal 1° gennaio 2021) che sollecita una cooperazione tra gli arbitri e i giudici nazionali là dove, dopo aver attribuito al tribunale arbitrale il potere di emanare provvedimenti cautelari (primo comma), stabilisce che, in assenza di spontaneo adempimento della parte obbligata, anche il tribunale arbitrale può chiedere la collaborazione del giudice nazionale che applicherà il proprio diritto (secondo comma).
Va detto che il tema è complesso e, al di là della possibilità di impulso in capo anche al tribunale arbitrale (da qui la cooperazione arbitro-giudice), il diffuso rinvio al diritto interno solleva tutte le criticità dovute alla frammentazione della disciplina in punto di esecuzione delle misure cautelari concesse dagli arbitri.
In altre parole, al netto della bontà – ci si augura – della riforma italiana, sul punto occorrerà uno sforzo internazionale, magari in sede di convenzione, diretto ad una maggiore uniformità di entrambi gli aspetti accennati, ossia quello relativo alla competenza cautelare degli arbitri e quello dell’enforcement dei provvedimenti cautelari arbitrali ad opera dei giudici nazionali.
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IPSOA Quotidiano
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