
DEMANSIONAMENTO: SE LEDE LA DIGNITÀ PROFESSIONALE DÀ LUOGO A DANNO RISARCIBILE
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- On Giugno 10, 2025
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La Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte d’Appello dell’Aquila, la quale aveva statuito in ordine alla risarcibilità del danno da demansionamento.
La Corte d’Appello dell’Aquila, riformando la sentenza del Tribunale locale, aveva accertato che l’adibizione di un infermiere dell’Azienda Sanitaria Locale ad attività proprie degli operatori sociosanitari (OSS) costitutiva illegittimo demansionamento del dipendente il quale, dunque, aveva diritto ad un risarcimento del danno (da lesione alla dignità professionale ed all’immagine lavorativa) che è stato liquidato, in via equitativa, in misura pari al 6 % della retribuzione del periodo in cui si erano verificati gli episodi. Avverso la pronuncia l’ASL ha proposto ricorso per Cassazione ma la Corte, con ordinanza n. 12139 dell’8 maggio 2025, ha confermato la decisione dei giudici di secondo grado.
LA SENTENZA DELLA CORTE D’APPELLO
Per la Corte d’Appello dell’Aquila, l’adibizione del dipendente a mansioni inferiori, ancorché “marginalmente” difformi rispetto a quelle cui il lavoratore è adibito e/o “funzionalmente accessorie e complementari” a queste ultime ovvero ancora “in via eccezionale e contingente rispetto ad un’esigenza di servizio”, dà luogo ad una condotta illegittima del datore di lavoro, idonea ad integrare un danno (da lesione alla dignità professionale ed all’immagine lavorativa) risarcibile, soprattutto se, come nel caso di specie, costituisce una prassi “costante e sistematica” e riguarda una“buona parte della giornata lavorativa”.
Il Collegio di seconde cure, inoltre, aveva precisato che il pregiudizio subito dal lavoratore non era da individuare, come sostenuto dall’ASL resistente, nella sporadica adibizione a mansioni “marginalmente” inferiori ma nella costante, sistematica e prolungata adibizione del lavoratore ad attività lavorative di rango di gran lunga inferiore (svolgimento di compiti prettamente manuali e dal bassissimo grado di specializzazione a fronte del carattere intellettuale e dell’elevata specializzazione richiesta per lo svolgimento della mansione di infermiere).
I MOTIVI DEL RICORSO
La ASL ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, a cui il lavoratore ha resistito con controricorso.
- con il primo motivo l’Azienda sanitaria ha lamentato la violazione, tra le altre, del Testo Unico sul Pubblico Impiego (D. Lgs. n. 165/2001) e dell’art. 49 del Codice Deontologico degli Infermieri nella parte in cui i giudici di seconde cure non hanno adeguatamente considerato che l’attribuzione del lavoratore a mansioni inferiori è consentita se l’attività svolta da quest’ultimo è prevalentemente conforme rispetto all’inquadramento contrattuale e se, in ogni caso, tali mansioni non siano completamente estranee alla professionalità propria del dipendente e se sussista un’esigenza organizzativa del datore di lavoro pubblico;
- con il secondo motivo l’Azienda Sanitaria Locale ha dedotto che la Corte d’Appello territoriale aveva errato nell’emettere la pronuncia gravata nella parte in cui il Collegio decidente non aveva effettivamente accertato le mansioni concretamente svolte dal dipendente e dunque non aveva assunto adeguati e concordi indizi tali da poterlo indurre a decidere in ordine all’eventuale demansionamento.
- con il terzo motivo, l’Azienda ricorrente lamentava che i giudici di secondo grado, in violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 del cod. proc. civ. e degli artt. 2059 e 2697 del cod. civ., avevano accolto l’appello proposto dal dipendente nonostante questi non aveva asseritamente dimostrato di aver subito “un danno non patrimoniale risarcibile” nonché il nesso causale tra la condotta datoriale e la lesione lamentata dal dipendente.
LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE
Il primo motivo di ricorso è stato rigettato poiché infondato e, in tal sede, i giudici della Corte Suprema, oltre ad aver dato atto che“sul piano giuridico non vi è dubbio che la richiesta agli infermieri di svolgere attività proprie degli OSS non sia a priori illegittima, in quanto essa trova fondamento nei doveri di flessibilità del lavoratore rispetto all’utilità della controparte, oltre che di leale collaborazione nella tutela dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio della sua attività (Cass. 17 settembre 2020, n. 19419; v. anche l’art. 49 del Codice Deontologico citato dalla ricorrente, secondo cui “l’infermiere, nell’interesse primario degli assistiti compensa le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente verificarsi nella struttura in cui opera”, hanno precisato come tale richiesta, per essere lecita, deve essere formulata a determinate condizioni, ossia:
- deve trattarsi di attività che non esprime contenuto professionale del tutto estraneo rispetto ai compiti propri dell’infermiere;
- la richiesta di tali prestazioni deve rispondere ad un’esigenza organizzativa, operativa e/o di sicurezza concreta del datore di lavoro, non anche a scelte estemporanee o a pretese di quest’ultimo, a maggior ragione se non giustificate dalla carenza di organico rispetto alla mansione in parola (ancora Cass. 19419/2020);
- le mansioni inferiori devono essere richieste “incidentalmente o marginalmente” rispetto a quelle proprie del lavoratore (C. Cass., sent. del 7 agosto 2006 n. 17774; C. Cass., sent. del 21 luglio 2022 n. 22901; C. Cass., sent. del 29 marzo 2019 n. 8910).
Ne discende, sostengono i giudici di legittimità, che il ricorso sistematico e non marginale (e/o non contenuto nei tempi) alle mansioni inferiori vìola in sé, sul piano qualitativo che è quello che rileva, il diritto del lavoratore al rispetto della propria professionalità, e ciò anche se sia rispettato il parametro di prevalenza dello svolgimento delle attività corrispondenti al proprio inquadramento contrattuale.
Così facendo, sostengono i giudici della Corte di Cassazione, la stessa regola della coerenza tra l’inquadramento datoriale e mansioni effettivamente svolte, come sancita dall’art. 52 del D. Lgs. n. 165 del 2001, resterebbe svilita e l’immagine professionale del dipendente fortemente lesa.
Dalla sentenza in commento può anche trarsi il seguente principio: “nel pubblico impiego privatizzato il lavoratore, venendo in rilievo il suo dovere di leale collaborazione nella tutela dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio dell’attività, può essere adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle di assegnazione, ma ciò a condizione che tali mansioni non siano completamente estranee alla sua professionalità, che ricorra una obiettiva esigenza, organizzativa o di sicurezza, del datore di lavoro e che inoltre la richiesta di tali mansioni inferiori avvenga in via marginale rispetto alle attività qualificanti dell’inquadramento professionale del prestatore o che, quando tale marginalità non ricorra, fermo lo svolgimento prevalente delle menzionate attività qualificanti, lo svolgimento di mansioni inferiori sia meramente occasionale”.
Anche il secondo ed il terzo motivo sono stati rigettati, seppure per ragioni profondamente diverse, principalmente perché non adeguatamente provati e documentati in sede di redazione del ricorso.
Il ricorso è dunque stato rigettato e la sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila confermata.
QUI LA SENTENZA COMPLETA
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